“L’ultima transumanza – Perché gli americani di notte vanno per i boschi” è uno di quei rari romanzi che ti lasciano dentro la polvere delle strade antiche, il silenzio dei monti e l’eco delle storie sussurrate attorno a un fuoco. L’ho letto con gli occhi, sì, ma anche con la pelle, con il cuore e con quel rispetto che si riserva alle cose vere.
Perché questa è una storia vera. Una storia di guerra e di greggi, di pastori e adolescenti, di fame e di onore. Una di quelle storie che rischiano di perdersi nel rumore della modernità ma che, grazie alla voce di Ernesto Seritti, tornano a vibrare forti come campane nella coscienza di chi legge.
Il romanzo è ispirato all’ultima transumanza dei pastori di Pescasseroli, nel novembre del 1943. La guerra impedisce ai pastori di seguire il solito percorso verso il Tavoliere delle Puglie. Le greggi, invece di essere condotte alla salvezza, vengono vendute al comando tedesco e destinate al macello. È la fine simbolica – ma anche molto concreta – di un’intera cultura agro-pastorale. Una civiltà millenaria che cede il passo alla brutalità della Storia.
Ma la vera forza di questo romanzo non sta solo nella ricostruzione storica. Sta nella voce di Fox, il giovane protagonista e narratore, uno studente che per necessità si fa pastore. Sta in quel lungo cammino attraverso l’Appennino che diventa una scuola di vita, una formazione sentimentale, etica e persino politica. Una lenta marcia che non è solo fisica, ma anche spirituale, dove ogni incontro è un insegnamento e ogni racconto una rivelazione.
Durante la lettura ho avuto spesso l’impressione che i personaggi uscissero dalle pagine e si sedessero accanto a me. Ognuno di loro, lungo il percorso, prende la parola non per apparire, ma per raccontare – e in quel raccontare si spoglia, si alleggerisce, si libera. I loro dialoghi sono confessioni intime, spesso dolorose, ma mai disperate. Anzi, sono ricche di quella dignità contadina che commuove, che resiste.
Seritti scrive con uno stile chiaro, asciutto, mai pretenzioso. Un linguaggio che arriva diretto, senza troppi giri. Usa una prosa paratattica – frasi brevi, incisive – che conferisce ritmo, energia e concretezza. Ma non manca di grazia: tra le righe, emergono passaggi lirici, descrizioni potenti, riflessioni profonde sulla Storia e sull’animo umano. E poi c’è quell’ironia sottile, bonaria, a volte malinconica, che sa spezzare l’incantesimo della narrazione con una risata leggera, e riportarti coi piedi per terra.
E come editore di Lupieditore, quando ho avuto tra le mani questo manoscritto, ho capito che non era solo un libro. Era un tributo a un pezzo d’Italia dimenticato, a una generazione silenziosa che ha costruito con fatica il nostro presente. Era doveroso pubblicarlo. Perché noi di Lupieditore non scegliamo libri a caso: scegliamo storie che accendano qualcosa. Storie che meritano di essere custodite, lette, tramandate.
“L’ultima transumanza” è anche un romanzo aperto, corale, in cui il lettore si sente invitato a entrare. Ci sono momenti in cui ti viene voglia di interrompere il protagonista e dire: “Aspetta, anche io ho qualcosa da raccontare.” È questo il potere dei libri veri: non si leggono, si condividono.
E poi c’è quel sottotitolo enigmatico: “Perché gli americani di notte vanno per i boschi”. Una domanda che ti accompagna per tutto il romanzo e alla quale la risposta arriva solo alla fine. E quando arriva, ti lascia lì, in silenzio, con un nodo in gola e il bisogno di restare un attimo solo.
Concludo con una certezza: questo libro non è solo una storia sulla guerra, non è solo un romanzo storico o un romanzo di formazione. È un atto d’amore verso la memoria, verso la terra, verso le parole. Ed è una carezza a tutti quei “Fox” che, ancora oggi, cercano la loro strada tra le ombre dei boschi.